Gabriella Colucci, Anna Di Noto, Patrizia Nicolosi: TRE PERFORMER ANTE LITTERAM
Piranesi nei luoghi di Piranesi e Il Museo della Città e del Territorio di Cori
Le tre performer
(date a Cesare quello che è di Cesare)
di Massimo Martini
1… Tutto avviene in un breve lasso di tempo. Dalla primavera del 1979 all’autunno del 1980. Gabriella Colucci, Anna Di Noto e Patrizia Nicolosi progettano la manifestazione Piranesi nei luoghi di Piranesi a Cori, allestiscono la mostra Architettura disegnata sempre a Cori, sono presenti alla Biennale del Post Moderno con lo studio Grau a Venezia, partecipano alla mostra collettiva, Un’idea di teatro, promossa da F. Moschini alla Galleria AAM di Roma, partecipano a una seconda mostra collettiva, A’ la recherche de l’urbanité – savoir faire et vivre la ville, in occasione della Prima Biennale di architettura di Parigi. Molti anni concentrati in pochi mesi. Le idee dello studio sono con loro. La strada novissima una bufera squassante, mediaticamente fuori controllo almeno per il Grau. Ma nel grande fatto nuovo, c’è un piccolo fatto nuovo. Loro rilanciano. Sentono più la spinta che non la soddisfazione. Oppure semplicemente il caso vuole così. E loro sono in ascolto. Il disegno è sempre ubiquo, espressivo, inequivoco. Ma qualche codice cambia. L’ossessione per la trasparenza diviene aleatorietà. Il disegno, inservibile in questa dimensione, cede il passo alla foto. La città come teatro, un’idea sì, ma un’idea che si sublima nella luce accecante del “panorama”. (Ponendo fine, a mio modesto parere, alla stagione vedutistica, sentimentale e casareccia del “paesaggio”. Andare oltre può condurre per davvero ad un altrove. Piranesi è Piranesi è Piranesi… aggirato, reso leggero, sempre amato, poi lasciato, la vita che scorre. Tre performer ante litteram tre. Tracce evidenti di concettualità. Con il piccolo particolare che tutto passa del tutto inosservato.
2… È un magma complesso quello tessuto in pochi mesi. Da cui non penso di voler uscire. Il racconto di progetto impossibile. Meglio inseguire gli spunti, le illuminazioni, così come la fantasia suggerisce. Nel rispetto della lettura che ognuno compie, scrivendo davvero il senso dei segni. C’è poco da spiegare. Indicare sì, come nelle notti delle stelle cadenti. Non uno scarto. Uno sciame di scarti. Il catalogo di Piranesi nei luoghi di Piranesi si apre con due tavole indimenticabili (peccato! le autrici non sono nella didascalia). La parete di fondo del chiostro di S. Oliva (uno dei luoghi delle manifestazioni piranesiane) è come ridotto a fondo, novello velo paleocristiano, nella gigantografia di un ulivo secolare morente, dinosauro spiaggiato. Ora lì come rudere pirenesiano vegetale! (giudizio delle architette, forse anche, sullo stato del territorio, allora). Mentre a fianco, anche qui strattonate dal furore della vita, le cornici del rilievo piranesiano impresse sulla lastra ora dilatate, galleggiano come lacune di Brandi sulla pianta della città di Cori, (e i segni espansi, come l’arte a volte regala, somigliano guarda! ai sinuosi percorsi ipogei delle grotte, forse quelle dedicate al vino). E si lavora, da adesso in poi, sia sull’astrazione di Brandi (sempre chiara e in primissimo piano), sia sul tessuto urbano compatto, (punteggiato com’è dalle stesse vetrine, ma in copia, della mostra principale allestita nel Palazzetto Luciani vicino a S. Oliva). Il teorema sembra tenere. Così anche il fedele disegno dilagante in tavole che non trovano (non possono trovare) più fine.
3… Le tre architette vedono passare un bel caso e non se lo lasciano certo sfuggire. Sanno che Patrizia tiene la macchina al collo, non aspetta altro. La falegnameria è in basso, nella zona industriale, e i manufatti arrivano a piedi in una corte di giovani ragazzi niente male. Tutto diviene un’installazione collettiva. Prevale il gioco delle tre performer ante litteram tre. Anna con i tacchi sposta una sagoma troppo grande per lei. Le altre ai piedi di Gabriella in salopette. Le mura ciclopiche, che rendono leggero qualsiasi segno. Oggetti a terra, nella sosta. Le vetrinette come atto votivo. Zone scure nei sottopassi voltati. Ombre che vengono dall’architettura (da cui forse anche loro, le progettiste, piano piano senza dirlo stanno fuggendo… in linea guarda! con il reazionario visionario Piranesi). Uomini che recitano un trasandato affaccendarsi per qualcosa. (L’immaginario della Ricotta di Pasolini che aiuta. Il Tempio sulla collina: un Golgota). Scoppia letteralmente l’allestimento raffinato dentro S. Oliva. Chissà. Il furore del rilievo piranesiano perenne (antica ossessione, sia di Franco Pierluisi che mia) diviene un blob totale. I trionfi prospettici romani sapientemente dimenticati. Per fortuna. Le tre architette, lucide ma ancora incredule di fronte al franare delle cose scrivono: “… il sistema dei teatri che ha come centro la piazza di S. Oliva si configura in una serie di segni simbolici, evocativi delle storie antiche, della fondazione, della formazione, della trasformazione della città: l’axis mundi, asse ideale di unione della confluenza delle acque e del monte, a ricordo della scelta topologica della città pelasgica, il quadrato magico che definiva i tracciati principali della città secondo le direttrici solari, il percorso a labirinto che univa e ancora unisce il paese a valle al paese sul monte…”. E, in uno scritto di poco posteriore, entrando nel merito stretto dell’idea di teatro, sempre le tre architette dicono: “… la scena è un giardino pensile, alto sui fossi, circondato di alberi disposti su cerchi concentrici a superare il salto di quota…”.
4… Ora chi scrive fa un passo di lato. Perché sarei tentato di spingermi ben oltre. Polemizzare con loro, le architette. Dire no! al quadrato magico. Dire sì! alla pergola come scena e panorama, (pura luce in grado di condurci da Piranesi a Rothko). Ma ogni situazione chiede un suo equilibrio. Anche questo breve scritto. Che è, vuole essere, uno scritto di parte. Quando (fra artisti) ci si dice con franchezza: questa traccia sul foglio viene da quei segni (non da quegli altri) – per andare (a occhio direi) verso quella tempesta figurativa (non quell’altra). E inizia, così, l’ennesimo confronto. Modalità quotidiana nel Grau: ricco di linguaggi, con valanghe di soluzioni nel cassetto. Povero purtroppo, e tutti lo sanno, di identità riconosciute, quindi identificabili. Ma seppur la critica è ferma ad alcuni caposaldi degli anni sessanta e settanta, nella sua libera e inviolabile valutazione dei fatti della storia, certo avviene che chi ha proseguito a riempire fogli bianchi ubbidendo al proprio istinto di progettista, negli anni fatalmente e per fortuna, può essere giunto su ben altri lidi. Ed è da questi lidi che vede il mondo. Con la passione (e la necessità di essere di parte) che certo non s’acqueta. Nemmeno in nome dell’alloro di Venezia. Ecco, ho scritto le stesse cose che ho detto in questi giorni a studio, fermandomi laddove vedo un punto di equilibrio. Che un poco oltre, la mia difesa pur appassionata di alcuni segni a scapito di altri, potrebbe essere percepita come una polemica sterile, autoreferenziale. Insomma non è lo scritto dello storico che non è in me.
5… Mi identifico e mi sento debitore nei confronti di Piranesi nei luoghi di Piranesi, un piccolo, misconosciuto, miracolo post moderno. Che sembra come inaugurare, nel nome dell’ambiguo (bifronte) architetto veneziano, proprio l’evento lagunare dell’ottanta. La concezione non prospettica, effimera, le spalle all’edificio, a mirare la trasparenza senza misura del panorama, tiene a battesimo un vero strappo alla disciplina che si vuole severa e seriosa del fare architettura. La città delle architette non fornisce piazze per ballare. Bensì terrazze da cui affacciarsi. Le sagome del rilievo dell’antico navigano come astronavi su una collettività ridotta a paese. Tutto diviene potenziale installazione. Loro benedicono i luoghi e gli oggetti, ben sapendo però che qualcuno le sta raffigurando in foto! Sciamane, almeno nella libertà di andare. Grazie a Gabriella Colucci, Anna Di Noto e Patrizia Nicolosi. Grazie per avermi ospitato in questa pubblicazione. Grazie a tutti per l’attenzione.
PS… Il catalogo di Piranesi nei luoghi di Piranesi, del 1979 come detto, si apre con uno scritto di Franco Pierluisi (cofirmato da Annamaria Cammisa e Francesco Porcari), che inquadra tutti gli aspetti della manifestazione (sotto l’ombra critica, ovvio, dello studio Grau e del suo lungo sodalizio con la città). Tre i temi principali. Un giudizio sul Movimento Moderno alla vigilia della consacrazione del Post Moderno. Il riconoscimento di Piranesi (e del Disegno di Architettura) come nume tutelare di tutti gli architetti che in quel momento stanno trafficando con la storia, tutta. Il destino delle culture locali definitivamente strappate dall’ottimismo tecnologico e modernista. Ecco, a 40 anni di distanza, in un libro che continui a tenere al centro Cori, la sua piccola civiltà e le passioni di oggi, questo scritto ne potrebbe essere l’occasione, la misura, la necessità quasi.
UNA SFIDA “OLIVETTIANA”
di Francesco Montuori
Ritorno al Museo del Territorio di Cori a quasi vent’anni della sua inaugurazione celebrata nel novembre dell’anno 2000. Attraverso il vasto Chiostro della chiesa di S.Oliva, ammiro ancora una volta il portico quadrato a doppio ordine con loggiato superiore, lunette affrescate e colonne dotate di una ricca varietà di capitelli: all’ordine ionico si alternano capitelli palmati, figurati o recanti lo stemma cardinalizio.
Si tratta di un Museo con una precisa connotazione: il territorio dei Monti Lepini, nel Lazio meridionale è l’oggetto dell’esposizione: architettura e paesaggio, progetto e luogo costituiscono lo spirito dell’allestimento attento al paesaggio, alle città che vi sono fondate, alla struttura dei tracciati storici che le ricollega.
Il Museo della Città di Cori ha sede nell’ala del convento degli agostiniani parte del complesso monumentale della chiesa di S. Oliva. Costruito su più livelli e fondato su un ampio terrazzamento tra le due parti della città, Cori monte e Cori valle, è orientato verso il mare e protetto da un ampio tratto delle mura poligonali.
Il complesso di S.Oliva, costituito da una chiesa doppia, la cappella del Crocifisso ed il santuario di Sant’Oliva, è composto oltre che dalla chiesa da un chiostro porticato e dal convento agostiniano. Il complesso sorge su un’area a forte connotazione archeologica: gli ambienti sottostanti il convento sono stati eretti sui resti di antichi templi e sostruzioni romane.
Il percorso espositivo si suddivide in otto sezioni: Geografia; Preistoria e Protostoria; Età arcaica; Età romana; Altomedioevo; Medioevo; Età moderna e si articola su tre piani e numerosi ambienti; narra, attraverso sintesi generali e approfondimenti sui diversi temi, l’evoluzione storica del territorio dei Monti Lepini su un arco cronologico di oltre trentacinque secoli, dalla preistoria all’età moderna. Il territorio contemporaneo viene reinterpretato nella sua dimensione storica, come stratificazione di eventi naturali e culturali.
L’allestimento si sviluppa sui tre piani del convento e comprende una collezione di numerosi oggetti rinvenuti nel territorio dei Monti Lepini quali: statue, ceramiche, bronzi dalla preistoria all’età romana, ceramiche; documenti di archivio dal rinascimento all’età moderna; stampe del settecento e dell’ottocento; plastici e numerose riproduzioni fotografiche di monumenti, affreschi, sculture; elaborazioni cartografiche, pannelli esplicativi, televisori e schermi per la proiezione di filmati sulla storia e l’arte del territorio.
Come nacque l’occasione di questo importante intervento? Non certo per caso, ci volle un lungo e complesso lavoro. Gabriella Colucci era legata a Cori e a Cori aveva realizzato importanti lavori con committenza privata; Anna Di Noto aveva vinto addirittura il concorso per il nuovo Piano Regolatore Comunale; Patrizia Nicolosi, grazie alle sue capacità ambivalenti di architetto e fotografo era particolarmente adatta alla progettazione museologica. Si compose un gruppo di lavoro e le “tre ragazze” unirono i loro sforzi. Ricordo continui sopralluoghi sul posto, sfibranti incontri con gli amministratori, entusiasmo e delusioni. Ma l’architetto Daniela Contino, funzionario illuminato della Regione Lazio, incoraggiò e sostenne finanziariamente il progetto.
Ma ancor prima furono gettate le basi per un esito positivo delle aspirazioni degli architetti. Nel 1979, inoccasione del bicentenario della morte dell’architetto veneziano Giovan Battista Piranesi morto nel 1778, fu organizzata dall’Istituto Nazionale per la Grafica la grande mostra Piranesi nei luoghi di Piranesi per rendere possibile un confronto delle acqueforti con le architetture piranesiane sia con i monumenti che le illustrano sia con il paesaggio archeologico da lui attentamente indagato; Le sedi espositive saranno cinque: l’Istituto Nazionale per la Grafica-Calcografia; Castel Sant’Angelo; gli Orti Farnesiani sul Palatino; la piazza dei Cavalieri di Malta e la città di Cori dove verranno esposte le antichità di Cori e del Latium vetus.
La Mostra di Cori sarà allestita a Palazzo Luciani da Colucci, Di Noto e Nicolosi; sarà l’occasione per costruire un rapporto con il paese e la cittadinanza; i pannelli espositivi verranno dislocati nell’intero paese, a segnare e a ricordare l’antico percorso a labirinto che dai fossi s’inerpica fino all’Acropoli, luoghi disegnati da Piranesi. Contestualmente nel chiostro di S.Oliva viene allestita una rassegna collettiva di disegni di architettura contemporanea, “Architettura disegnata” per ribadire, nella storia delle arti visive, il rapporto organico fra disegno e progetto. I disegni di architettura sono allestiti nel chiostro di Sant’Oliva su gigantografie fotografiche di grandi ulivi divelti. Si voleva alludere così alla distruzione in corso del paesaggio laziale.
Nasce qui la convinzione di ricollegare l’esposizione con la città tutta. L’iniziativa Luoghi Teatrali a Cori ed in seguito Un’ idea di Teatro confermano la consapevolezza di diffondere le iniziative progettuali, dal centro geografico del complesso conventuale di Sant’Oliva, nei luoghi antichi della vita collettiva: il Pozzo dorico, la Via delle colonne, il Tempio di Ercole; un sistema di teatri i cui riferimenti simbolici evocano le antiche storie della fondazione e della trasformazione della città. Così dal progetto dei luoghi teatrali scaturisce l’idea di un teatro all’aperto da realizzare fra le antiche mura e le forre e i fossi che la delimitano, aperto verso la campagna e il mare.
Esperienze tutte volte a diffondere nella città e nel territorio i segni di una civiltà remota che deve tornare a vivere per ricostruire un’identità urbana e territoriale.
Nasce da qui l’impostazione museale, non isolando una fase storica o un tema specifico, ma volta a narrare per frammenti una civiltà antica, rinascimentale e moderna.
Lunghe eleganti vetrine in lunghi vani inospitali; finestre semichiuse, anch’esse esposte, da riaprire verso il paesaggio laziale: il tema riguarda non solo la città di Cori ma le 24 città del Latium vetus e fra queste le più importanti: Signia, Norba, Ninfa, Setia, Privernum, Satricum; il percorso espositivo ne narrerà l’evoluzione storica dalla preistoria all’età moderna. La sovrapposizione della carta archeologica del territorio sovrapposta ad una composizione computerizzata di oltre 90 foto aeree permette di individuare i resti delle strutture antiche ancora visibili: i centri urbani, la viabilità, le necropoli e i santuari, le fattorie agricole.
A partire dalla scoperta del patrimonio storico de Monti Lepini iniziata da Piranesi e da Rossini per arrivare alle analisi urbanistiche moderne sulle strutture delle antiche città e sulle emergenze delle città dei Monti Lepini, il Museo della Città e del Territorio di Cori svolge una costante azione scientifica di ricerca, valorizzazione e divulgazione del patrimonio culturale del Latium vetus.
Esco dal museo, consapevole della tesi di fondo che animò i progettisti: restituire al territorio circostante un segnale per la crescita culturale e l’identità storica delle sue popolazioni. Una sfida “olivettiana” ancora da vincere in un Paese “incolore” senza più ideali, riferimenti, e un’incerta identità politica.