Enzo Rosato
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Enzo Rosato nasce a Grottaglie (TA) nel 1940. Studia ceramica nella locale Scuola d’Arte fino al 1957. Nel 1958 si trasferisce a Roma, dove frequenta l’Istituto Statale d’Arte, prima come allievo e poi come collaboratore di Leoncillo. Si diploma nel 1961.
RIFLESSIONI SULLA MIA STORIA DI SCULTORE-CERAMISTA
(incontro/dibattito all’istituto d’arte di Roma – 1981)
Vorrei approfittare di questa occasione offertami dall’Istituto d’Arte di Roma per raccontare un poco della mia storia, seppure attraverso le immagini delle mie opere che di seguito vi proietterò. Per tutti è importante riflettere sul cammino percorso; per me, come potrete vedere in seguito, il tornare alle origini significa anche riconquistare la pienezza di una espressività individuale.
Dico questo perchè provengo da un paese, Grottaglie nelle Puglie, di lunga tradizione ceramica e perché ho 1avorato la creta fin dalla prima giovinezza. Alla scuola locale di Ceramica ebbi come insegnanti i vecchi “mastri” che univano alla grande capacità manuale una intatta predisposizione a tramandare le tradizioni della antica ceramica popolare, in maniera sempre viva e soprattutto inventiva. Nelle botteghe artigiane questo apprendistato diveniva, per quelli come me, che ne avevano voglia, la conquista di un mestiere, di tutti i segreti del mestiere, non ultima la dimensione culturale della ripetitività dell’oggetto e della produzione in serie.
A diciotto anni sono venuto a Roma dove, dal 1958 al 1961, ho frequentato la sezione di ceramica dell’Istituto Statale d’Arte. E’ un momento particolare della mia formazione perchè, mentre si chiude in maniera violenta il legame con la tradizione dei miei luoghi di origine (e con questo fatto dovrò in seguito fare i conti), si apre d’altro canto, fruttuoso e illuminante, il rapporto con la cultura ufficiale e in particolare con lo scultore Leoncillo, prima come suo alunno e poi come suo collaboratore nella realizzazione di molte opere.
L’influenza di Leoncillo va ben oltre l’acquisizione del suo stile (che d’altronde traspare evidente nelle mie prime opere); essa è decisiva perché in pratica mi costringe a pensare non più come “ceramista” ma come “scultore”; seppure uno scultore che usa preferenzialmente la ceramica (ed è naturalmente la contraddizione che sarebbe più tardi scaturita dal fatto che la scelta della ceramica come mezzo espressivo era ben diversa in un artista come Leoncillo, rispetto a me, che me la portavo dentro fin dalle origini). E’ chiaro che allora lui era quello lungimirante, perché ne aveva fatto, consapevolmente, una scelta di espressività artistica.
Le caratteristiche di quei primi lavori risentivano delle tematiche informali dove la qualità e la diversificazione della materia predominavano tutto lo spazio modellato, facendo emergere il colore come pura condizione esistenziale. Erano forme in uno spazio fisico spontaneo e immediato, non prospettico, dove il progetto iniziale dell’opera si riduceva a pura sensazione.
Questa condizione di libera espressività, cosi entusiasticamente ereditata da Leoncillo, non poteva certo durare a lungo: troppe erano le contraddizioni che andavano affiorando. Da un lato la constatazione che il patrimonio delle forme del passato, da cui derivava la base della mia cultura, veniva rapidamente impoverendosi attraverso una produzione ormai industriale che ne snaturava il valore di tradizione (dunque anche la mia tradizione). Dall’altro un ristagno culturale generale, l’imbarbarimento degli stessi grandi centri urbani nei quali ormai io vivevo e che induceva alla perdita di ogni connotato originario.
Ho cercato delle regole, degli appigli, per ridare aspetto razionale all’opera di progettazione, per iniziare nuove esperienze sulle qualità dello spazio figurativo. Ho rimesso in discussione le mie stesse scelte di ceramista oltre che di scultore. Ho eseguito una serie di oggetti tutti tesi al recupero della geometria come strumento razionale di controllo, e alla riacquisizione della nettezza e della stereometria in contrapposizione ai precedenti spazi informali. Ho cominciato a visitare i principali luoghi di produzione della ceramica non più alla ricerca di antichi e irripetibili equilibri artigianali ma per scoprire come rendere ancora vivi e attuali, almeno per me, i valori della tradizione. Ho cominciato a collaborare in maniera sempre più intensa con il gruppo di architetti romani dello studio GRAU i quali, per altre strade, stavano sorprendentemente giungendo alle mie stesse conclusioni.
A questo punto la storia della mie esperienze si fa sempre più intrecciata, complessa, articolata: l’assunzione di elementi razionali come la geometria, le leggi aggregative, la simmetria, la rappresentazione prospettica dello spazio, il policentrismo, ecc… avviene sempre più mediata dall’uso contemporaneo di elementi tratti dalla Storia, dalla mia storia particolare, la storia della ceramica popolare. Riesco così anche a superare una certa rigidezza della mia ricerca come ad esempio è riscontrabile nella serie di oggetti che ho chiamato “Geometrie” e a reintrodurre, d’altro canto, i grandi temi della natura, della decorazione, della figura umana. E voi potete ben capire quale grande obbiettivo questo della figura umana sia per ogni scultore e per me in particolare alla fine di un tortuoso percorso: ceramica popolare-informale-geometria-spazio.
Sui temi generali della ricerca non ho altro da aggiungere anche perché, come si suol dire, i lavori sono in corso. Però ci terrei, alla fine di questa breve eposizione, di soffermarmi su una esperienza particolare che ho compiuto in questi anni e che ha trovato una inaspettata e felice conclusione nella partecipazione, assieme allo studio GRAU, alla Biennale di VENEZIA DEL 1980, in occasione della 1°Mostra Internazionale di Architettura intitolata, per me significativamente: “La Presenza del Passato”.
Da anni coltivavo l’idea di ripercorrere la storia delle forme dei vasi, di alcuni tipi di vasi della tradizione ceramica, e di unire a questa ricerca i temi, ormai purtroppo drammaticamente decaduti, della decorazione, di tutta la decorazione, fino all’ultimo segno di pennello dell’ultimo ceramista-decoratore dell’ultima bottega d’arte. Questi vasi dovevano essere prima di tutto delle “sculture” e non degli “oggetti” e poi verificarne la tenuta di forme cosiddette compiute allorché su di esse vengano via via affiorando temi decorativi naturalistici ed espliciti riferimenti alla storia; in definitiva una operazione dichiaratamente simbolica: il vaso metafora della centralità e della dinamicità dello spazio, le decorazioni metafora della storia e della condizione umana odierna.
Nella collaborazione con lo studio GRAU per Venezia questi vasi sono stati assunti come urne cinerarie in una facciata di cotto che, articolata in altrettante nicchie semi-sferiche, si poneva significativamente come un antico colombario pagano. Questa facciata, all’interno della cosiddetta “Strada Novissima”, era dunque, anche essa, un elemento carico di simbologie uno straordinario moltiplicatore degli stessi temi da me posti e che sopra ho enunciato. E, come scrivemmo a presentazione del nostro lavoro: “…una rottura con la storia circostante; una apertura verso altra storie, altre vite, altre forme di vita; una sacralizzazione della propria testimonianza come uomini e come artisti…”.
PRINCIPALI MOSTRE PERSONALI E COLLETTIVE