“La materia e la memoria del classico” – Personale di ceramica e scultura – Galleria AOCF58 – Roma

 

 

                          

 

 

LA MATERIA E LA MEMORIA DEL CLASSICO

FRANCESCO MOSCHINI

Se non fosse per questa sua ostentata aspirazione alla contemporaneità, soprattutto nelle opere più recenti, c’era da ritenere Enzo Rosato un artista ostinatamente legato ad un’idea di classicità quasi metastorica.

E Rosato ha infatti sempre cercato, con i suoi lavori precedenti, di porsi al di fuori della moda e dell’ansia della ricerca del nuovo ed è questa la conseguenza immediata del suo porsi “fuori” del tempo. Il suo classicismo infatti non è mai stato altro che una aspirazione ad una dimensione del tempo indeclinato e quindi una sorta di tentativo di sottrarre la sua opera al mercato ed al consumo. Ma anche gli esiti attuali della sua ricerca che si presenta quasi prorompente, con una matericità esasperata in cui cerca di ritrovare un ordine, non possono non richiamare alla memoria proprio gli avvii dell’itinerario progettuale di E. Rosato.

Eravamo agli inizi degli anni Sessanta in un clima di informale ancora “caldo”, non stemperato cioè dalla freddezza della ragione, ed E. Rosato si muoveva tra urgenza gestuale di memoria espressionista e dissoluzione della materia secondo l’insegnamento di Leoncillo: ma quanto nel suo maestro si configurava come abbacinante dispersione luministica, in E. Rosato si risolveva invece in un accorato trattenimento all’interno della materia stessa. Ma questo suo tentativo di ricollegarsi ad una sua felice stagione precedente non credo vada interpretato come una sorta di rimozione di una classicità perseguita poi nel corso degli anni, che ho definito metastorica, quanto piuttosto, ritengo, sia il tentativo di ricollocarsi proprio all’interno di una storia, sia pur personale, intesa come radicamento e unica possibilità di “riappaesamento” della ricerca artistica contemporanea.

Dobbiamo poi ricordare che il lavoro di E. Rosato si è sempre caratterizzato, fin dagli anni Sessanta, per una sua particolare vocazione progettante, nella fase più propriamente di individuazione modulare e seriale certo non estranea alla sotterranea poesia di un maestro della sobrietà francescana come Nedda Guidi e poi nel suo successivo approdo neocostruttivo degli anni Settanta.

A partire poi dagli anni Ottanta fino alle esperienze più recenti, E. Rosato ha caratterizzato il suo itinerario artistico come un lavoro da compagno di strada di un particolare versante della cultura architettonica rappresentato da alcuni architetti che si riconoscevano nel G.R.A.U. e che hanno ritrovato nell’ordine della storia e nell’ordine della ragione il senso di un operare sul quale appunto anche E. Rosato aveva trovato il modo di ritagliarsi una propria precisa collocazione.

Tutto ciò non alla ricerca di isolati cantucci poetici quanto con una chiara volontà progettuale.

Nel suo lavoro egli aveva sempre trovato una autonoma possibilità in quel disegnare in maniera fortemente individualizzata, in una definizione in cui si mescolavano forme e materiali aulici, con forme e materiali più popolari, lontano pertanto da quel compiacimento per il gigantismo di un frammento che nasce come tale, come sarà nella cultura post-moderna, la “scandalosa” sensualità di una classicità ridotta a presenza quotidiana, come si verificherà in un artista come Mitoraj.

Attraverso il disegno delle sue formelle, delle sue cornici e più in particolare quindi attraverso un’insolita idea di ornamentazione egli tentava di mettere a punto delle forme possibili di rappresentanza sociale di elementi simbolici capaci, in un’epoca caratterizzata da profonde contraddizioni, di ricostruire cioè un luogo dell’abitare che potesse tornare ad esprimere, pur nella rielaborazione di spazialità intese anche nella loro ripetizione, valori di permanenza e di solidità. Ed è proprio questa mescolanza di elementi della cultura “alta” e di quelli di matrice più popolare a permettere l’affermazione di quei valori.

Ed è significativo che il riferimento in tutti quei suoi interventi molto legati al mondo dell’architettura, fosse al mondo barocco, proprio perché il barocco ha sempre fondato su questa dialettica la possibilità di una narrazione comprensibile, o, più precisamente, ad una sua particolare reinterpretazione proprio negli stessi anni in cui Alessandro Anselmi sembrava coniugare l’alessandrinismo del suo disegno con l’impetuosità di una corrosiva ed indagatoria messa in tensione del segno.

E. Rosato ha sempre intercalato all’interno di quei lavori più propriamente architettonici la costruzione di figure essenzialmente “retoriche” dove la costruzione stessa dell’immagine poetica avveniva rielaborando miti e simboli di una dimensione domestica nel senso più ampio del termine. Enzo Rosato ha avuto un ruolo quindi preciso in quel suo stabilire che l’ornamento doveva svolgere una duplice funzione, da una parte riscattare la qualità spaziale della sua dimensione soltanto funzionale, dall’altro trasformarlo se possibile in opera d’arte conferendogli quel valore aggiunto tale che rende uno spazio sempre riconoscibile dall’altro. Quello a cui però è sempre arrivato E. Rosato con il suo lavoro non è mai stato una pura costrizione verso una rielaborazione artistica di una qualità spaziale caricandola di tutti quei valori che proprio lo spazio architettonico non era più in condizione di sopportare.

La reinvenzione spaziale con l’aggiunta degli elementi di E. Rosato, nelle architetture e negli spazi interni progettati dal G.R.A.U., non tentava di mettere in discussione lo statuto progettuale di quegli spazi, così ben definiti, di volta in volta, dai diversi architetti del G.R.A.U., né tanto meno si trattava di “truccare” quegli spazi, di mimetizzarli fino a trasformarli in qualcosa di quello che Benjamin definì a suo tempo come una sorta di “rifugio del collezionista”. Si trattava semmai per lui di accettare proprio selezionando l’iconografia e perfezionandola volta per volta di sdrammatizzare la lotta degli architetti contro i limiti del linguaggio, contro la sua incapacità di farsi espressione chiara e riconoscibile. Il contributo suo allora più particolare va individuato in una sorta di racconto in cui, oscillando tra sogno e realtà, tra tradizioni lontane e più ravvicinate, tra dimensione del presente e suggestioni più atemporali, cerca di pervenire ad un’idea di domesticità.

Egli ha tentato infine di rifondare, recuperando forme, materiali e tecnologie, proposte mediante il ricorso ad un enorme patrimonio storico, una rinnovata immagine di solidità e di continuità nel tempo. Sembra essersi opposto all’idea del precario e del consumo, all’impermanenza espressa dalla realtà dei nuovi materiali, quasi esorcizzandoli attraverso il ricorso a materiali nobili non dal punto di vista della loro ricercatezza quanto piuttosto nobili per la loro tradizione consolidata, e nel loro impiego e nella loro iconografia consueta, arrivando così ad una sorta di unicità degli elementi sempre comunque con l’attenzione a porli fuori dal tempo, a sottrarli a questa idea di rapidità del consumo, quasi arrivando ad una sorta di deposito di materiale semantico, come un’icona vera e propria, per una nuova classicità che viene da lui sempre evocata come argine al “divenire”.

E stranamente allora nessuna corrispondenza e nessun naturalismo sono possibili in una ricerca che fonda nella perentorietà e nell’assolutezza delle linee geometriche le nuove mitologie destinate a durare nel tempo. Ma significa anche che ciò modifica il rapporto con una produzione consueta portando alla messa a punto di una sorta di ibrido progettuale determinato dalla contaminazione tra tipi di lavorazioni diverse, proprio quelle lavorazioni che aggiungono lavorazioni artigiane ai processi più propriamente industriali quasi a concepire le stesse tecniche come una sorta di immagine metaforica che si fanno cioè carico di esprimere, attraverso processi e materiali di produzione, una nuova interpretazione del mondo.

Il senso di spiazzamento che si coglieva proprio di fronte a quei vasi che punteggiavano la spazialità di alcune architetture del G.R.A.U. nasceva proprio da quel corto circuito provocato dalla compresenza e dalla contemporaneità di questi tipi di lavorazione che sottendevano certe filosofie diverse rispetto a quelle più correnti. Tutto ciò però senza mai arrivare ad una idea che il bello ritrovato fosse il luogo di conciliazione e quasi di superamento degli opposti, di equilibrio, di ordine, di ricomposizione della forma, piuttosto, semmai, la messa in evidenza delle contraddizioni della forma proprio attraverso lo scontro tra tecniche e materiali, aspirazione classica e dimensione prorompente del quotidiano.

Ed è questa stessa dimensione prorompente a caratterizzare la ricerca attuale che, abbiamo chiarito fin dall’inizio, cerca un filo rosso di continuità con gli avvii iniziali della ricerca di E. Rosato. Ma anche qui il ricorso alla sinuosità quasi barocca dei “crepacci” attuali, in cui l’arabesco disegnato dalla materia rigurgitante allude comunque ad una condizione gioiosa di quella materia colorata quasi vestita a festa nel suo sgargiantismo cromatico, fa anch’esso riferimento agli stessi frammenti scultorei di panneggi agitati da un vento che sommuove e sconvolge ogni pretesa naturalistica. Questo almeno sembra suggerire quel darsi delle “pieghe” leibniziane con la loro ostentata bidimensionalità pur nel loro invadere lo spazio, quasi ridotte a lastre sbalzate, come se fossimo in presenza di una trasmutazione materica.

Le sue stesse forme naturalistiche, compresse come sono all’interno di una spazialità circoscritta e racchiusa, sembrano sempre alludere ad una volontà di E. Rosato di mantenere comunque l’ordine del mondo, quello stesso ordine che le letture fotografiche di Patrizia Nicolosi ci hanno spesso restituito del lavoro di E. Rosato proprio enfatizzando quel suo gusto per la “tavola imbandita” in cui la storia trova la propria sequenza nella successione degli elementi, assoluti nella loro levigatezza, che trapassa dalla ritrattistica ai vasi, una volta sottratti al “rigor mortis” che li vedeva idealmente destinati a collocarsi soltanto nelle nicchie funerarie di tradizione romana.

E quell’ordine delle cose all’interno di un rigorismo geometrico è lo stesso che sottendeva i suoi elementi di riconfigurazione plastica degli spazi, ed ancor oggi, come allora, E. Rosato tende a privilegiare la messa in tensione, non la riappacificante acquisizione di un equilibrio, ma lo scontro in atto appena fatto vibrare e forse raggelato per una sorta di nuova passione esibita, esibita proprio nel momento in cui viene controllata.