ott 292019
 

         

dal 9 dicembre 2019 prorogata fino al 20 gennaio 2020

Davanti una giostra a Dorgali in Sardegna nel 1976, durante una festa di paese a Pineto in Abruzzo nel 1973, a San Lorenzo a Roma nel 1972 “i bambini ci guardano”. Come nel film di Vittorio De Sica che abbandona il cinema del feuilleton, anticipa il neorealismo nel 1943 per descrivere i drammi della gente comune e la condizione dell’infanzia con un capolavoro che avrebbe dato il via ad uno sguardo dal vero, quello che vedono gli occhi dei bambini fotografati da Claudio Bassi mostra la condizione di chi è privato dell’infanzia, la curiosità per la vita, il lavoro, il tempo libero ma raccontano molto di più. E come in un cinema, Claudio Bassi ci conduce in “Seconda Visione”… Titolo della mostra fotografica realizzata in bianco e nero che illumina sulla vita di una nazione e di una città come Roma, un quartiere storico come San Lorenzo, il lavoro minorile, il gioco e i tratti dei volti dei bambini allora così uguali a quelli degli adulti e così diversi da quelli che siamo abituati a vedere oggi nella società post-consumista.  Sono immagini dense di significato quelle realizzate da Bassi, fotografo e stampatore.

 

C’è il lavoro nelle sue espressioni più comuni: il calzolaio, il venditore di ferro e quello delle donne, poi c’è il Mezzogiorno e le monache “turiste per caso” nella città eterna che comprano un rosario da un ambulante. La scalinata di Trinità dei Monti fa da sfondo a una pausa di una turista stanca, a via Condotti un bambino si copre gli occhi dallo sguardo di chi cerca di penetrare nella sua anima con una Leica e un obiettivo da 50 mm, lui però non vuole essere fotografato. Ad Orgosolo in Sardegna nel 1976 Bassi fotografa i murales, mentre a Roma la sopraelevata che cambia la prospettiva della città. E poi c’è il Carcere di Santo Stefano “Reparto Ergastolo Ordinario” è scritto sui muri, e inoltre: “La libertà non si può togliere a nessuno”. Lo ha fotografato nel 1975, “Qui finisce la giustizia degli uomini, qui comincia la giustizia di Dio”, dichiara una epigrafe. A Ventotene Bassi ha immortalato in alcuni click un funerale proprio come si faceva un tempo: sono immagini di rara intensità.

Nato a Roma, nel quartiere San Lorenzo il 31 maggio 1945, Bassi fotografa col cuore. Con la sua Laica ne ha “descritto” la luce, i colori, i costumi, la storia di quello che è sempre stato magicamente il suo luogo. “Mi ero comprato la Leica con un obiettivo 50 mm, dice, e andavo in giro per Roma a fotografare in maniera semplice, riprendendo quello che vedevo attorno a me. C’erano donne, uomini e bambini che lavoravano, se poi mi addentravo nel centro storico, osservavo i turisti cercando di fotografare quanto di più bizzarro e di stravagante incontravo. Ma il filo conduttore dei miei scatti è il mondo delle persone semplici. Per questo la mostra si chiama “Seconda visione”, come al cinema: c’è la prima visione e poi noi, gente semplice che si riconosce in quello che fa, in ciò che vede attorno: è questo che ho cercato di immortalare, le persone che negli anni settanta andavano in seconda visione”.

  

 

Strano destino quello di un uomo semplice che ha incontrato con il suo lavoro i più grandi fotografi e registi di tutti i tempi…Bassi è uno dei più importanti “stampatori” dei più grandi fotoreporter internazionali, Mario Dondero, Tano D’Amico, Gianni Giansanti, Sergio Strizzi, Vezio Sabatini, Paola Agosti, Donata Pizzi, Massimo Cappellani, Gabriella Mercadini gli hanno affidato i loro scatti d’autore per scoprire il carico di ricchezza di ogni immagine, testimonianza di un artigiano della fotografia, come lui ama definirsi, consapevole che la forza dell’immagine risiede nella sfumatura dei grigi e nell’intensità del nero. Ma Bassi è uno specialista del settore che controlla le inquadrature, apporta tutti i miglioramenti possibili al negativo in camera oscura. Qualche anno fa ha pubblicato un libro fotografico con l’editore Ceribelli “Quaderno fotografico”, che riassume la sua professione, lui direbbe il suo essere artigiano della fotografia.

 

L’inizio della sua professione fa data 1961, quando il cuore gli battè forte forte perché era stato assunto come apprendista nell’agenzia fotografica Telefoto.

Da allora ha lavorato nella fotografia e nel cinema, collaborando anche con registi del calibro di  Franco Rosi, Elio Petri, Giuseppe Tornatore, Matteo Garrone, oltre che con quotidiani e riviste. Dal suo laboratorio sono passate le foto di scena del film di Roberto Benigni, La vita è bella. Le sue abili mani immerse nelle bacinelle dai sali d’argento hanno dato vita all’incanto di quelle immagini.

 

Dal 2014 collabora con Fotogramma 24 di Marco Bugionovi e Simona Bugionovi. Dove da poco è arrivata anche Francesca Oro. Tutti i suoi amici si sono stretti attorno a lui per sostenere questo progetto e Bassi li ringrazia di cuore. Ora, dal 9 dicembre 2019 e fino al 3 gennaio 2020, Bassi espone la sua opera artistica rigorosamente in bianco e nero, 70 immagini ai sali d’argento formato 13×18 montate su cartoncino bianco da Francesco Fiammeri, più tre maxi stampe del formato 40×60 con effetto pennellato, alla galleria Bruno Lisi di via Flaminia 58, che raccoglie artisti, architetti, pittori, scultori ed è un angolo di luce nel cuore di Roma. Come a via Margutta in Vacanze Romane, gli studi degli artisti appollaiati su una scalinata ospitano dipinti, sculture, fotografie opere d’arte, una nicchia nascosta tra i Palazzi romani dove si produce arte e si crea bellezza.

Anche la scelta della location è per Bassi sintesi di una vita dedicata all’arte e all’amore per la fotografia.

 

 

ott 212019
 

LUNEDI  11 NOVEMBRE /VENERDI 29 NOVEMBRE

 

Quando le tele 40 x 20 cominciarono ad accumularsi, il titolo dell’opera di Beckett divenne sempre più potente senza che io ne capissi il significato. Il carattere assurdo, ossessivo, patetico, a volte comico e profondamente umano della commedia di Beckett mi aveva fortemente segnato quando l’avevo vista nella mia adolescenza. Oggi mi interessa di più la forma dell’opera, con il suo numero di scene imprevedibili, come se ci fossero altre scene e altre ancora senza sapere dove dovrebbe condurci.  L’unico conto possibile nell’opera di Beckett è quello delle due date, una sulla prima pagina e l’altra sull’ultima.

Come riferimento a Beckett, il primo dipinto della serie ha una data sul dorso e l’ultimo dipinto un’altra data.

In pittura, che si tratti di un’opera seriale o meno, sembra che il prossimo quadro, certamente in dialogo o in risposta a quanto sopra, dovrebbe essere sempre nuovo, più vicino a ciò che stiamo cercando, diverso e ancora più vero. È così che si continua di tela in tela per ascoltare questa attesa.

Nel lavoro in process, in particolare nel lavoro seriale, la pittura si genera secondo una logica propria, tra ripetizioni e variazioni, continuità e rotture, formando un insieme coerente nella sua diversità e unità. I colori, i tocchi, i gesti ritornano inevitabilmente ma anche si contraddicono a vicenda, provocando la nuova tela, quella che speravamo, l’inatteso – atteso, l’evento tela per la sua unicità, la sua evidenza, quella che dà senso alla tela della porta accanto ma anche al tutto. Infine, come le scene della commedia di Beckett, è sempre quella che ci aspettiamo e che dovrebbe avere senso. Eppure non succede davvero nulla. Senza dare chiavi di lettura, è il processo che ha senso, consegnando il tutto al nostro sguardo errante. Il dialogo è molto tra due dipinti come nel gioco di Beckett tra Pozzo e Lucky, ma questo dialogo dà vita ad altre scene, altri dialoghi, altri dialoghi, dialoghi dell’attesa. Aspettiamo Godot, aspettiamo la tela che dovrebbe venire e infine sono tutti i dialoghi, il loro clima di incertezza e fragilità a dominare.

 

PRESS RELEASE 2

Venue                         AOCF58 – Galleria BRUNO LISI, via Flaminia 58 – Roma (metro A line, Flaminio stop)

Artist                           CLAUDIE LAKS

Title                            Aspettando Godot

Opening                      Monday 11th November, 6 pm

Period                         from 11th to 29th November 2019

Timetable                   from Monday to Friday, 4.30 – 7.00 pm (closed on Saturdays and public holidays)

When the 40 x 20 cm canvases started gathering up, the title of Beckett’s work became more and more powerful without me understanding its meaning. The absurd, obsessive, pathetic, sometimes comic and deeply human character of Beckett’s comedy left a strong mark on me when I saw it as a teenager. Today I am more interested in the form of the work – with its number of unpredictable scenes, as if there were more and more scenes, without knowing where it should lead us. The only possible count, in Beckett’s work, is the one of the two dates, one on the first page and the other on the last.

As a reference to Beckett, the first picture of the series has a date on the back, and the last has another date.

In painting, whether it is a serial work or not, it seems that the following picture, certainly in dialogue with or in response to what came before, should always be new, nearer to what we are looking for, different and even truer. It is the way we continue, from picture to picture, in order to pay attention to this wait.

In the in process work, especially in serial work, painting generates itself following its own logic, between repetitions and variations, continuities and breaks, forming a totality, coherent in its diversity and unity. The colours, the strokes, the gestures unavoidably return, but they also contradict each other, provoking the new canvas, the one we hoped, the unexpected-expected, the “painting” event due to its unicity, its evidence, which gives sense to the next-door picture but also to the whole. Eventually, like the scenes of Beckett’s comedy, it is always what we expect and which should make sense. Yet, nothing happens. Without giving interpretations, the process is what makes sense, delivering the whole to our wandering gaze. The dialogue is much between two paintings as in Beckett’s game between Pozzo and Lucky, but this dialogue gives birth to other scenes, more dialogue, more dialogue, dialogues of the wait. We wait for Godot, we wait for the picture that should come and, in the end, all of the dialogues, their uncertainty and weakness, dominate.