mar 092022
 

dal 7 al 25 marzo 2022

A cura di   Silvia Bordini e Diletta Borromeo

 

 

Mariagrazia Pontorno, Passa Dentro. Un’opera di David Tremlett, 2000, video still

Chi sono gli artisti che compongono questa mostra?  E cosa stiamo vedendo? L’opera dell’artista di cui si riproducono gesti e procedimenti o l’opera di chi lo riproduce?

Tra opacità e trasparenza, come in un gioco di rimandi, una decina di artisti raccontano, interpretano, documentano, descrivono e colgono sul fatto altri artisti. Utilizzano il film e più spesso il video, impugnano la telecamera come in un reportage, un gioco, un esperimento, un’indagine. Sono diversi per formazione, età, esperienze e intenti ma tutti legati tra loro da una rete di rapporti che si rimandano con leggerezza. Ritrarre l’altro riverbera una serie di coincidenze e fa emergere differenze, specificità, linguaggi. È un modo di estendere lo sguardo che appartiene al paradigma del divenire delle immagini, da sempre peculiare del fare arte e tanto più con la complessità dei dispositivi di riproduzione “tecnici”, fotografia, film, elettronica e digitale, come si analizza e si ripete, da Walter Benjamin a Nicolas Bourriaud. L’arte ha sempre guardato all’arte, tra appropriazione, riproduzione, citazione, contaminazione, omaggio, rimediazione e post-production. Il fulcro è proprio la relazione, il processo in cui l’artista si rappresenta come spettatore di un altro artista, si inventa come continuatore e fa dell’altro artista un pubblico da coinvolgere. Una zona di contatto. Verifica incerta, realizzata da Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi nel 1964-65, è un esperimento dedicato a Marcel Duchamp. Una gran quantità di pellicola dei film hollywoodiani degli anni Cinquanta viene messa alla prova da mesi di smembramenti e tagli al montaggio, con salti e ripetizioni, fino alla dispersione di un qualsiasi senso. Le uniche riprese di Baruchello sono quelle della figura iconica dell’amico Duchamp avvolto nel fumo del sigaro, che fa capolino tra un taglio e l’altro, quasi a ricordarci che il germe di quest’opera è il ready-made. Una sperimentazione scanzonata, come Gioco di Giosetta Fioroni, protagonista Pino Pascali ritratto in una sorta di rito primaverile en travesti insieme agli amici, non impedisce che gli stessi autori siano consapevoli del medium e distinguano i linguaggi. «Non faccio un film perché un mio quadro rappresentava questo insieme di oggetti e inserisco gli oggetti nel film, non ha senso. Le due cose devono essere complementari, non possono sovrapporsi», dirà Baruchello nel 1968. Alcune esperienze producono un riverbero: l’indagine che Fioroni compie nell’intimità dell’amico Umberto Bignardi e di sua moglie nel video Coppie, dove la ricerca della bellezza si mescola a un ché di voyeurismo, può essere fonte di ispirazione per la performance La spia ottica, progettata per il “Teatro delle Mostre” nel 1968, di cui la stessa artista scrive: «Vi sono due momenti che si fondono in uno. L’esperienza di chi guarda e il comportamento della donna che sa di essere guardata». L’elemento comportamentale è molto rilevante nel video SKMP2 di Luca Maria Patella, dove Pascali è uno dei protagonisti. La sua presenza e la sua fisicità “primordiale” esibita bucano lo schermo della camera di Patella, ma più tardi, nel 2003, quando l’autore televisivo Marco Giusti concepisce uno speciale su Pascali, negli spezzoni di SKMP2 rielaborati insieme ad altre opere, scenografie, animazioni e il Pulcinella, si crea una vertigine creativa. Si sovrappongono le trasformazioni di Pascali, l’occhio analitico di Patella e la narrazione di Giusti, il quale procede a salti, tagli e ripetizioni che – contrariamente alla distruzione del significato operata nel montaggio di Verifica incerta – generano un ritmo e un senso circolare che chiude il racconto. Se per alcuni le esperienze con la telecamera si rivelano transitorie, Mario Schifano invece resta, si potrebbe dire, ossessionato dal video, di cui non potrà fare a meno, sia in quanto regista dello strumento, sia come fruitore del monitor TV, che riprende nei suoi stessi video. La sua visione è un flusso continuo e quotidiano di immagini di vita, in parte raccolto nel film Mario Schifano Tutto, che rivela il suo lato umano, spesso eccessivo ma sincero, anche nei riguardi dei suoi compagni di strada e del loro lavoro, che condivide. Nel brano di Mario filming Franco Angeli, mentre quest’ultimo disegna la falce e martello sul prato, Schifano sembra lasciare spazio alla sacralità dell’opera in divenire. I video di Fioroni, Patella e Schifano confermano un sentire collettivo, l’esigenza degli artisti di riprendersi fra loro, attratti non solo dal nuovo mezzo che consente di documentare, ma anche dal desiderio narcisistico, amplificato dalla telecamera e dal gioco di equilibri fra l’artista che produce l’immagine e l’artista che può diventare materia e specchio per l’altro. Il guardare e il guardarsi, i temi del ritratto e dello specchio, il riverbero dell’immagine, coinvolgono l’artista anche attraverso le opere di altri, citate, manipolate oppure fuse in un nuovo lavoro come  Foot Print, ideato da Mario Sasso nel 1989 con le musiche di Nicola Sani e concepito per le prime trasmissioni Rai-Sat nel 1990. Il videotape mostra le immagini di città e regioni raggiunte dalle riprese del satellite, in una nuova prospettiva che immagina una sintonia tra le forme dei territori e quelle degli artisti che li hanno abitati. Impegnato su piani contigui tra la videoarte e la pittura, Sasso sente l’urgenza di “riscaldare” la tavolozza dell’elettronica, un linguaggio fino a quel momento considerato freddo. «Sono un pittore che a un certo punto ha incontrato l’elettronica», dichiara. Così, dai reticoli dell’immagine satellitare, emergono le opere di Lucio Fontana, Piet Mondrian, Giuseppe Capogrossi, Alberto Burri, Marc Chagall, Osvaldo Licini, come “incarnazioni” dei territori di appartenenza. Per il tramite degli artisti, la forma e la sensibilità cromatica si tramutano in materiale espressivo, cui si sovrappone la stratificazione operata da Sasso. Mariagrazia Pontorno, collaboratrice di Sasso all’inizio della sua formazione, si cimenta nella  rappresentazione di Passa Dentro, un lavoro collettivo di David Tremlett. L’occasione, nel 2000, è un progetto in collaborazione tra il Palazzo delle Esposizioni e l’Università La Sapienza, in cui gli studenti sono partecipi di una grande opera da realizzare negli spazi di Tor Bella Monaca. Lo stesso video, realizzato da Pontorno insieme a Federico Vuerich e Luca Morazzano, con le musiche di Sani, è frutto di un lavoro a più mani. Ancora una volta le sovrapposizioni di più visioni ed esperienze generano un cortocircuito creativo attraverso lo sguardo del videomaker: si sofferma sull’interazione di Tremlett con i ragazzi, scandisce il tempo del lavoro in fieri, presenta in un tutt’uno il ritratto dell’opera e dell’artista, lascia una propria memoria, scegliendo di seguire la sinuosità delle linee che segnano il movimento della composizione pittorica, linee che nel video sembrano correre veloci e leggere. Francesco Vaccaro sottopone alla lente del tempo e della memoria i ritratti di artisti e scrittori. Nelle piccole effigi degli scrittori del Novecento e nei video in cui “insegue” il lavoro degli artisti, la memoria sembra passare attraverso le fattezze, il corpo e il movimento. Racconta i momenti del suo procedimento creativo: «dopo l’incontro e la nascita dell’interesse per il lavoro segue la fase, molto bella, delle riprese nello studio dell’artista, dove ciascuno lavora per conto proprio e io assisto in rigoroso silenzio alla creazione dell’opera. Poi, la fase del mio montaggio, nel mio studio, in cui attraverso le immagini raccolte, cerco di costruire un racconto poetico». Con empatia Vaccaro cerca reciprocità in una corrispondenza interna. Nelle riprese è accurato, segue gli artisti da molto vicino osservandone la manualità, i dettagli, i gesti, si focalizza sul lavoro in sé e sugli oggetti peculiari. Non sembra compiere un vero rispecchiamento, piuttosto da questi lavori pare estrarre piccoli indizi che divengono nutrimento per sé stesso. In tal modo riesce a cogliere gli aspetti più sensibili delle opere: la manipolazione degli inchiostri mutevoli e l’essenza materiale della carta in Elisa Montessori (2003); la cancellazione della parola rinchiusa e ulteriormente negata in favore di una dimensione più intima, meno plateale, se possibile ancor più minimalista, in claudioadami notes (2005); i Corpi Estranei di Bruno Lisi (2009), che sembrano generati da cellule organiche e dal segno vitale che percorre l’opera tutta, dai filamenti dei metacrilati alle pitture dei filiformi colori vibranti.

Silvia Bordini e Diletta Borromeo

video in esposizione

Monitor

Gianfranco Baruchello, Alberto Grifi, Verifica incerta, 1964-65, 38’34”

Videoproiettore

Giosetta Fioroni, Gioco, 1967, 03’55”

Giosetta Fioroni, Coppie, 1967, 02’

Mario filming Franco Angeli, e Franco Angeli, Tano Festa e Giulio Turcato, 1968, 01’; tratto da Mario Schifano Tutto, a cura di Luca Ronchi, edizioni Feltrinelli, 2001

Mario Sasso, Foot Print, 1989, musica di Nicola Sani, 03’10”

Mariagrazia Pontorno con Federico Vuerich, Luca Morazzano, Passa Dentro. Un’opera di David Tremlett, 2000, musica di Nicola Sani, 5’21”

Marco Giusti, Pino Pascali o le trasformazioni del serpente, 2003, brano da SKMP2 di Luca Patella, 1968, e opere, scenografie, animazioni, 04’

Francesco Vaccaro, Elisa Montessori, 2003, montaggio Roberto Dalfinà, 6’42”

Francesco Vaccaro, claudioadami notes, 2005, 5’35”

Francesco Vaccaro, Bruno Lisi. Corpi estranei, 2009, 5’06”

 

 

feb 202022
 

 

a cura di Diletta Borromeo

dal 7 al 25 febbraio 2022 – Presentazione del lavoro della residenza 3 marzo ore 18.00

Lo studio sarà aperto al pubblico dal lunedì al venerdì dalle ore 17 alle 19.30.

 

       

“Mi piace molto l’irruzione del fantastico, del senso di meraviglia, rispetto alla realtà.” DVZ

Un instancabile fluire di immagini finirà per occupare lo spazio di AOCF58. I collage di Daniele Villa Zorn, prodotti nel periodo in cui la galleria diverrà il suo studio diurno – “Quasi una residenza” – portano con sé una rivelazione vissuta nel momento in cui si forma. Brani di fotografie si mescolano e si ricompongono fino a sedimentarsi in immagini. Il fulcro del lavoro è l’individuazione di un’epifania che riproduce uno stato d’animo e dopo aver preso corpo si rigenera di continuo, attraverso un processo che non vuol mostrare gli originali come opere compiute ma piuttosto come matrici, impronte di una formatura da cui possono scaturire, “come in fotografia, altre emanazioni, altre declinazioni”, afferma l’artista.

 

Ciò significa che una volta creato un collage, una sorta di irradiamento di quell’immagine si propagherà attraverso la produzione di stampe con differenti tecniche e utilizzi, su carte diverse per pubblicazioni, poster e illustrazioni, proprio come accade a una fotografia. “E’ un work in progress di scoperta che fa proprio parte del mio approccio – racconta. Porterò tanti materiali diversi e vedrò se durante la permanenza succederà qualcosa che mi condurrà a cambiare direzione. Da un lato mi piace che ci sia una dimensione circoscritta, in cui l’elemento provvisorio, temporaneo, della residenza, diventi la cornice per poter osare un po’ di più liberandomi, senza sentire il peso di un lavoro definitivamente compiuto. Potrei anche affermare che sono quasi ossessionato dall’idea di processualità.” Il percorso dei collage nasce come “un gioco personale, un’espressione privata di riflessioni sulla composizione, sul potere delle immagini.” Crea così una possibile mappa delle combinazioni, valuta la tecnica e il suo essere autodidatta che gli concede “un’affezione diversa”, con meno ragionamento e più istinto. Lavora in maniera minimale, con una sorta di montaggio analogico su fotografie tratte per lo più da guide turistiche che hanno per oggetto la natura.

Un giorno Daniele vuol dirmi quale fosse la sua visione da ragazzo, riguardo al cercare e scovare un’immagine fra tutte per cogliere un senso: giganteschi mucchi di fotografie e una mano che dall’interno emerge stringendone una sola. Tutto ciò rappresenta il suo metodo istintivo, che lascia spazio alla libertà e forse anche al caso, malgrado le possibilità combinatorie con due frammenti siano comunque limitate, a prescindere dal numero dei materiali a disposizione, mentre la cesura fra i due pezzi di carta si manifesta come fondamento della composizione, anche per la sua drammaticità evocativa.

Ma la suggestione giovanile rimanda oltretutto al lavoro di Daniele Villa Zorn nell’ambito del cinema, quasi fosse un innesco tra sequenze e montaggio che lo ha guidato verso l’ulteriore passaggio al collage, consapevole del diverso medium e di conseguenza del diverso messaggio delle immagini sovrapposte sulla carta anziché in pellicola. In alcune circostanze, a partire dal 2012 mette in atto la performance Synchronotopy, che evidenzia il carattere processuale dei collage. Si tratta di una improvvisazione in cui le associazioni dei frammenti si trasformano mano a mano in collage, filmati e proiettati a parete, in condivisione e in stretto dialogo con la musica del polistrumentista Aleksandar Caric Zar, che sarà presente all’inaugurazione per eseguire la performance Synchronotopy – on the Hill, appositamente realizzata per l’occasione.

Si intuisce così che i collage, la performance, ma anche i materiali e le diverse stampe fotografiche, nonché una bibliografia di ispirazione che l’artista ha recentemente esposto nella libreria Leporello, sono il contesto del lavoro, fanno parte di un tutto.

 

 

A questo divenire di immagini appartiene infatti un successivo elemento che si concretizzerà e verrà presentato al termine della residenza, ossia un photobook nella versione dummy, un libro rimasto allo stadio precedente all’andare in stampa e senza copie limitate. Come spiega l’artista, “a mio parere ha molto a che fare con il pre-montato di un film, presentare un dummy equivale a ciò che si fa per una cerchia ristretta. E’ utile e bello poterlo mostrare a questo livello di elaborazione e aprirsi a uno scambio. E’ un libro pensato per il piacere di proporre una narrazione.”

 

 

 

Daniele Villa Zorn

è un artista visivo e performer nato a Roma, dove vive e lavora, nel 1973.

Formatosi in ambito cinematografico, ha collaborato con le case editrici Ubulibri e Faber and Faber, curando pubblicazioni incentrate sul dialogo con cineasti come Otar Ioseliani, Takeshi Kitano e Terrence Malick; è stato inoltre autore e produttore di documentari di creazione con la casa di produzione e factory artistica Citrullo International, di cui è stato cofondatore.

L’attività performativa abbraccia principalmente una serie di performance character driven, con una saga (senza titolo) incentrata su una misteriosa figura mascherata in blu e il live-collage con Synchronotopy, quest’ultimo in solitaria o con il musicista serbo Aleksandar Caric Zar.

Come artista visivo si esprime prevalentemente con la tecnica del collage.

Tra i progetti più recenti, nel 2019 realizza per il centro culturale MADE A.C. di Mazatlan, in Messico il progetto ‘Inconsolable’, con il patrocinio dell’Istituto di Cultura Italiano di Città del Messico e il sostegno di PAC.

Nel 2021 realizza, con la cura di Chiara Capodici, il progetto The Divine Tourist per Leporello photobooks et al..

instagram: daniele_villa_zorn

www.danielevillazorn.com